Questo libro che Giuseppe Lavorato ha scritto sulla sua Rosarno – sulle donne, sui giovani, sugli uomini che la abitarono e che la abitano – non riguarda unicamente un luogo della Calabria, non appartiene soltanto a quelle memorie che vengono classificate nella categoria delle storie locali. Questo libro riguarda la storia dell’Italia. Leggendo della vita di tante persone di una ben determinata città – tutte e tutti nominati uno per uno – si capisce meglio che nel più erudito dei saggi storici la vicenda del mezzogiorno, e del Paese, nel tempo che inizia alla metà del secolo passato e dura fino ad oggi. Qui si narra con la sincerità di una cronaca volutamente scarna, senza abbellimenti e senza retorica, della condizione umana e della realtà sociale, della difficoltà delle lotte e della gioia delle conquiste, dei momenti d’avanzata democratica e dei drammi del riflusso reazionario, delle grandi speranze e delle delusioni, della miseria morale di tanta parte dei ceti dominanti e del coraggio di tanti uomini e di tante donne del mondo del lavoro e della cultura.
E’ un libro di memoria e di storia, e di questo c’è sempre un bisogno vitale ma particolarmente oggi nel passaggio politico e sociale che stiamo vivendo. Qui da noi, in Italia, iniziò, alla fine del ‘900, la dannazione della memoria di quella che venne chiamata la prima repubblica. La storia di mezzo secolo fu praticamente sepolta. Sono continuate le cerimonie celebrative delle date fondative della rinata democrazia italiana. Il 25 aprile del 1945, giorno della liberazione dall’occupazione nazista e dalla tirannide fascista, ha continuato ad essere celebrato, ma spesso solo ad opera delle associazioni dei partigiani, ormai sempre più vecchi. E il 2 giugno del 1946, giorno della nascita della repubblica, è diventata la festa delle forze armate, con la relativa sfilata militare a Roma. Ma che cosa sia stato il mezzo secolo che iniziò da quelle date pare destinato ad un generale oblio, quando non ad una aperta condanna, dopo il crollo di tutti i partiti che avevano dato vita alla Resistenza antifascista e alla Costituzione repubblicana. Non tutti i partiti scomparvero per le stesse cause. I partiti da sempre o da lunghi anni al governo furono travolti da inchieste giudiziarie su casi di corruzione endemica. Il Partito comunista italiano si trasformò in altro da se per volontà di una maggioranza che si convinse di aver portato un nome sbagliato.
Si disse allora che finiva la repubblica dei partiti, tutti eguali, tutti indecorosi, tutti colpevoli di malgoverno e di abuso del potere anche se il Pci, dopo la primavera del 1947, era stato sempre all’opposizione salvo poco più di un anno quando entrò in una maggioranza di governo (ma non nel governo) inaugurata , era il 18 marzo del 1978, dal rapimento e poi dall’assassinio di Aldo Moro – un capolavoro della eversione di destra eseguito da gente che credeva di fare la rivoluzione di sinistra. Fu il culmine di un attacco feroce alle istituzioni repubblicane e alla Costituzione, un attacco costato una ininterrotta scia di delitti degli opposti terrorismi, di stragi, di tentativi di colpi di stato – delitti, stragi, tentativi di golpe molto spesso condotti con alleanze più o meno divenute palesi con le organizzazioni della criminalità, la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra, la sacra corona unita. Fu una lotta dura e difficile quella di tenere aperta la strada della democrazia costituzionale. E fu una lotta che ebbe i suoi eroi, troppo spesso dimenticati.
Giuseppe Lavorato fu uno dei protagonisti di quella lotta. E fu un protagonista di primo piano. Spesso si pensa che i grandi protagonisti sono solo quelli di cui si parla di più, gli uomini del potere, gli intellettuali di grande fama, i più noti personaggi dello spettacolo (con i comici che paiono diventare tribuni del popolo). Protagonisti, a ben guardare, sono anche, e soprattutto, coloro i quali diventano senza volerlo autori e simbolo di una stagione e di una realtà storicamente data. Così è stato per Lavorato, che appartiene alla prima generazione meridionale cresciuta nel dopoguerra, e viene maturando una consapevolezza critica della società e del mondo, una consapevolezza che gli indica la parte in cui stare. E da questa parte sta con intelligenza e con rigore affrontando senza niente chiedere per se, e senza enfasi, le prove più dure , comprese quelle che possono avere come prezzo la perdita della vita.
Così Lavorato diventa protagonista, della stagione del riscatto del mezzogiorno e di una lotta tenace contro la ‘ndrangheta, contro le mafie, cioè per un salto di civiltà di tutta l’Italia, compreso quel nord talora sprezzante verso il sud ma colpevole di una antica occupazione semicoloniale e interessato all’uso di una mano d’opera a buon mercato. Era, è ancora, una lotta impari, perché lo Stato è lontano e distratto, quando non colluso con le cosche e con i loro affari sanguinosi. Non a caso un grande giornalista democratico, Giorgio Bocca, dedicò a Lavorato un capitolo del suo viaggio al “profondo sud, male oscuro” (così s’intitolava quel libro), definendolo con le parole “onestà e coraggio”. E scrisse di aver capito, parlando con lui, cosa vuol dire l’espressione “a viso aperto”. Certo, e a viso aperto venne poi la partecipazione allo scontro contro la rivolta di Reggio Calabria capeggiata dall’eversione nera, quando la forte sezione comunista di Rosarno, assieme alle altre della provincia, andava a presidiare la sede della federazione provinciale per difenderla dagli attacchi fascisti. E poi venne il tempo dell’azione in parlamento come deputato della Calabria, e dell’opera come sindaco della sua città, Rosarno, con imprese amministrative, culturali e civili memorabili.
Ma Lavorato non ha scritto questo libro per se, ma, come dichiara fin dall’inizio e come il lettore vedrà, per riscattare il nome della sua città entrato nelle cronache dell’inizio del nuovo millennio per un accadimento drammatico. La protesta di braccianti africani – contro le vessazioni dei caporali, le paghe di fame, le condizioni inumane di vita-, si trasformò in rivolta, a seguito di una falsa notizia, dopo di che partì una “caccia al nero” che evocò i peggiori spettri del razzismo. E dunque il libro interviene per cancellare questa immagine negativa narrando della storia delle lotte democratiche condotte dai cittadini di Rosarno per la difesa della democrazia dal fascismo e dal potere mafioso.
Il primo ricordo va ai due giovani rosarnesi caduti in Spagna nel 1937 per difendere la repubblica spagnola dall’attacco franchista, fascista e nazista, uno studente di valore e un lavoratore, un comunista l’uno un anarchico l’altro. E gli ultimi ricordi sono quelli della proclamazione a Rosarno nel 1995 (essendo sindaco Lavorato) della “ festa della fraternità universale”, proprio per saldare un sentimento di comunanza con gli immigrati che si andavano facendo più numerosi. In mezzo a queste due date c’è il tempo della repubblica italiana che, in quell’estremo lembo della penisola, è segnato innanzitutto da una crescente attività mafiosa in parallelo con le “grandi opere” pubbliche e con l’ingresso della ndrangheta nel mercato mondiale della droga. Queste organizzazioni mafiose relativamente “nuove” moltiplicano la violenza – e gli assassinii di quanti non si piegano alle intimidazioni o intralciano i loro affari. I comunisti diventano il bersaglio principale, perché sono forza organizzata sul territorio, hanno ideali che li sostengono, sfidano apertamente le cosche. E’ nel corso di questa vera e propria battaglia di chi senza armi combatte contro un potere clandestino armato, protetto da settori inquinati dello stato, che cade Giuseppe Valarioti, figlio di contadini, laureato, divenuto un giovane intellettuale di spicco e segretario della sezione comunista di Rosarno. Un assassinio esplicitamente politico, ancora oggi impunito. Uscivano dal festeggiamento per la vittoria elettorale nelle elezioni provinciali e regionali del 1980, Valarioti viene colpito a morte, muore tra le braccia di Lavorato. Tutta la campagne elettorale era stata segnata dagli attacchi alla sezione comunista. All’assassinio di Valarioti – in altro paese calabrese, a Cetraro – si sommò, negli stessi giorni quello Giovanni Losardo, dirigente comunista, assessore comunale, segretario di tribunale : altro delitto impunito. La solidarietà di partito, e, a parole, di altre forze politiche democratiche fu grande. Ma non mutò l’inefficienza, o, peggio, l’indifferenza complice, delle strutture dello stato.
Intimidazioni, sparatorie, minacce a mano armata contro Lavorato , la festa dell’Unità, la sezione, il comune democratico proseguirono nel tempo. La ’ndrangheta reggina e calabrese non è stata stroncata come potenza locale ed è cresciuta come potenza mondiale nel campo della droga, facendosi notare per la sua crudeltà. Sul territorio l’unica forza politica ben radicata e ben organizzata che ha combattuto a viso aperto con il sacrificio di tante vite è venuta negando se stessa, frantumandosi e scomparendo.
Perciò il libro di Lavorato è prezioso. E’ un documento, ed è anche un racconto fitto di nomi, di ritratti, di episodi che il tempo e l’incuria o la irriconoscenza umana tendono a cancellare. Ma una persona, un partito, una nazione che perdono la memoria della propria storia – o si affidano solo alla deformata narrazione dei vincitori – perdono se stessi e la propria funzione nel mondo. Dobbiamo essere grati a Lavorato, anche per questa sua fatica di scrittore. Non fu un comunista dogmatico, ma, secondo la migliore tradizione dei comunisti italiani, fu aperto e critico, capace di leggere e combattere i mali della società e anche quelli della propria parte. Perciò non si abbandonò, quando venne il momento del cambiamento, né ad una nostalgia vacua né allo sconsiderato e non meno vacuo nuovismo che pensava di trarre beneficio dal rinnegamento di un nome. Quel nome, “comunista”, costò tanta fatica e tanto sangue, in Calabria e in tutta l’Italia, per riportarlo all’onore che altri, giunti al potere, avevano sporcato, pur meritando riconoscenza per il contributo decisivo dato alla sconfitta del mostro nazista. Fu, quella del Pci una esperienza ormai irripetibile nell’assetto politico del mondo radicalmente mutato e nella nuova realtà determinata dalla rivoluzione tecnologica. Ma nella parte migliore di quella esperienza, e cioè nella creazione di comunità umana retta da principi etici non sostituibili, c’è molto da imparare ancora. E c’è da imparare, come questo libro ci spiega, dalla capacità di essere sempre dalla parte dei più deboli, degli ultimi e dei penultimi, le lavoratrici, i lavoratori. C’è da imparare, come questo libro ci spiega con i fatti che racconta, dalla volontà di quei comunisti di capire , di studiare, di non piegarsi e di non cedere al pensiero dominante elaborato da chi domina. Lavorato non ha mai ceduto. E ci invita a non cedere.
Aldo Tortorella
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Ho provato a contarle.
Ma poi mi sono fermato, avvolto dalla ricchezza dei loro nomi, quasi a poterne vedere i volti.
Dopo aver letto il grande libro di Peppino ho provato a contare di quante persone le sue pagine hanno raccontato vite, parole, lotte. Centinaia di esseri umani che la memoria viva di un loro compagno ha avuto la forza e la dignità di consegnare finalmente alla storia.
Sono loro i protagonisti indelebili di questo diario di vita con cui Peppino ha saputo ancora una volta fare un passo indietro, perché il suo ruolo non sia quello di un Virgilio a guida del gregge, ma quello di chi sa camminare in mezzo agli altri, ascoltandone rabbia e sogni, ma rispettandone e condividendone anche errori e paure.
Chi pensa di trovare in queste pagine un’autobiografia si sbaglia. Non c’è una sola pagina che ceda alla tentazione di rinchiudere il respiro della storia dentro alla prospettiva troppo stretta di una singola vita. Ogni pagina, quasi ogni paragrafo sono dedicati a persone con cui Peppino ha camminato insieme, senza lesinare scontri e conflitti. Persone di ogni epoca, di ogni terra, di culture e di generazioni apparentemente diverse e lontane. Persone con cui Peppino sembra essere capace di camminare insieme a distanza di decenni. Come quando nel 2011 si ferma insieme ai braccianti africani davanti alla casa di Giuseppe Valarioti a salutare la vecchia madre commossa. Peppino ci porta in mezzo a loro, non si mette davanti a noi, ma ci lascia stare lì, nel cuore delle loro e nostre vite.
Questi sono i protagonisti del libro di Giuseppe Lavorato.
Sono uomini e donne di uno dei luoghi meno conosciuti e più maltrattati d’Italia e d’Europa, la Piana di Gioia e le zone limitrofe. Uno dei luoghi che se ascoltato attraverso la memoria densa di Peppino assume invece il carattere fondamentale, quasi epico, di metafora della storia umana e sociale dell’Italia dal dopoguerra ad oggi. Le dinamiche economiche e politiche che accompagnano i ricordi di Peppino sono essenziali per capire cosa è successo e dove siamo arrivati.
Sono tanti i percorsi che permettono di attraversare questa storia per poterne trarre insegnamenti da cui avere il coraggio di ripartire. Ce n’è uno però che mi sembra fondamentale sottolineare: è quello che traccia una linea di connessione chiara tra partecipazione sociale, potere economico e organizzazione mafiosa.
Oggi sembrano troppo spesso tre corpi separati. La ‘ndrangheta o la camorra sembrano essere poteri criminali da combattere con gli strumenti giudiziari e di polizia, ma la crescita del loro potere non viene collegata alla dinamica economica più prepotente dell’età contemporanea: la caduta della partecipazione sociale alla dimensione politica delle nostre vite, ha permesso ai mercati di raggiungere un’indipendenza quasi totale da forme di controllo esterno e questa supposta libertà ha aperto la strada alla crescita esponenziale e incontrollabile delle diseguaglianze. I mercati lasciati liberi invece di autoregolarsi, come sostenevo i fautori (forse non del tutto disinteressati) delle scelte liberiste e neo-liberiste, hanno lasciato carta bianca all’accumulazione di grandi ricchezze nelle mani di fette sempre più ristrette di popolazione. In questo contesto la posizione per antonomasia verticale del potere mafioso trova il suo humus più fertile. Chi accumula ricchezze gestisce anche potere e deve essere lasciato libero di continuare a farlo. Scopo di tutti gli altri è cercare di diventare amici del potente o del ricco più vicino. Una lotta tra singoli, una guerra tra poveri che aumenta ancor di più la disgregazione sociale e riduce ulteriormente la partecipazione alla vita politica, che si è trasformata quasi completamente in una tensione tra interessi privati e clanici.
Ma la grandezza dei pensieri di Peppino e il motivo per cui è oggi quanto mai necessario leggerli, è che aiutano a non rimanere soffocati in questo circolo vizioso.
L’errore più grave oggi, per la Calabria, per l’Italia, per il Mondo, è cedere, per sconforto o per disorientamento, al fascino dell’anti-politica.
Peppino lo dice chiaramente: se l’uomo non si unisce in un corpo sociale collettivo capace di dare voce a ingiustizie e diseguaglianze, il suo destino più probabile è quello di servo di poteri indiscutibili e arroganti.
Unire la propria vita, la propria rabbia, le proprie speranze ad altri significa costruire partecipazione sociale, significa fare politica.
Il pensiero comune largamente condiviso che avvicina il politico al mafioso, non deve trasformarsi nel rifiuto dell’azione politica, perché altrimenti non fa che aiutare l’alleanza già storicamente forte tra mafia e politica.
Per aiutare tutti a trovare la forza e il coraggio di generare partecipazione, al di là e insieme alle differenze di ognuno, Peppino ha scelto di lasciare a tutti noi questo diario di vita, anzi di vite.
Come se volesse invitarci a camminare ancora tutti insieme.
Un invito a cui sta noi ora decidere cosa rispondere.
Andrea Segre