In questi giorni è tornata “di moda” la questione Ciambra. Per chi non lo conoscesse “Ciambra” è il quartiere in cui a Gioia Tauro vive la comunità Rom. Un vero e proprio ghetto dove le condizioni igieniche e sanitarie sono drammatiche, un luogo dove i controlli sono molto pochi e questo lo trasforma in un’oasi di illegalità e di degrado, una sorta di “paese parallelo” senza regole, con le proprie usanze ed il proprio stile di vita. Di generazione in generazione nulla cambia, gran parte della comunità continua a vivere di espedienti più o meno legali, a rifiutare l’istruzione ed a vivere tra il degrado come se nulla fosse. Antonio Marziale, il Garante per l’infanzia e per l’adolescenza della Regione Calabria, ha deciso di smuovere le acque di fronte a questo scempio, disponendo il servizio di un pulmino ed il monitoraggio dei vigili affinché si accertino della frequenza scolastica. In questi giorni si è scoperto che il pulmino è fermo e che quindi, nuovamente, “non si va a scuola”. A questo si aggiunge anche il progetto di riqualificazione Edilizia del quartiere, 8 milioni di € per riqualificarlo fruibili grazie al bando per il recupero delle periferie urbane, al quale il comune ha aderito. Oggi non si hanno notizie di quel progetto. Ma siamo sicuri che la condizione sociale difficile del quartiere Ciambra sia figlia di un problema infrastrutturale? Certo, vivere in quelle condizioni non è umano, viola la dignità di qualunque uomo e sarebbe una sconfitta per tutta la città, ma il ghetto è esclusivamente una condizione infrastrutturale o anche sociologica? Come si può integrare una comunità che vive separata dal resto della città? Ed a cosa servirebbe una casa nuova per chi è abituato culturalmente a vivere in un villaggio? Forse sarebbe meglio un’equa dislocazione abitativa, certo, sarebbe difficile per la città ed i cittadini accettare come inquilino della porta accanto un Rom, sarebbe difficile confrontarsi con una comunità che fino ad oggi pur vivendo nel degrado ha pesanti responsabilità, che è restia a mandare i piccoli a scuola, che è restia a lavorare e ad avere gli stessi doveri e quindi diritti del resto della comunità. Ma chi vive Gioia Tauro sa che esistono esempi provenienti appunto da quella comunità che hanno deciso di cambiare stile di vita, hanno deciso di mettersi nel mondo del lavoro, di mandare i figli a scuola e quindi di integrarsi al resto della città. E’ meglio continuare a respirare le tossine dei copertoni bruciati? E’ meglio assistere inermi a furti di ferro, rame ed automobili? Oppure, considerando che si tratta di cittadini gioiesi a tutti gli effetti è necessaria un’apertura anche da parte del resto della città per favorirne l’integrazione? Credo che questa vicenda debba essere oggetto di profonda riflessione per tutta la città di Gioia Tauro.
C.C.