Politica e mafia: connubio di vecchia data che porta con sé un lungo e articolato dibattito sulle infiltrazioni criminali nelle amministrazioni degli enti locali. La questione si è riproposta con fragore in questi giorni, originata dalla decisione del Viminale (formalmente dal Presidente della Repubblica) di procedere allo scioglimento di ben 5 consigli comunali calabresi, tra cui una città nevralgica come Lamezia Terme. La Piana di Gioia Tauro, storicamente, è incappata nel famigerato articolo 143 del Testo Unico degli Enti Locali, tanto che comuni di vaste dimensioni come Gioia Tauro e Taurianova sono stati destinatari del provvedimento di scioglimento tre volte. Il tris lo ha calato anche il piccolo comune portuale di San Ferdinando, falcidiato dalle operazioni antimafia contro i clan locali, così come dai commissariamenti straordinari dell’ente. La norma che governa il procedimento dello scioglimento dei consigli comunali risale al 1991, e qualche ruga inizia ad averla. La mafia, in particolar modo la ‘ndrangheta, da allora è cresciuta ed ha aumentato il proprio PIL, ed il controllo delle amministrazioni locali si è dimostrato vitale non solo per ricavi di tipo economico (in primis con gli appalti) ma per ribadire il controllo del territorio. Ma tra gli anni ’90 e l’attualità c’è stato un passaggio normativo importante, ovvero le riforme Bassanini che hanno tolto, di fatto, poteri alle amministrazioni elette dai cittadini indirizzandoli verso la burocrazia. La legge, quindi, è stata corretta – forse non completamente adeguata – inserendo la punibilità per i burocrati in odor di mafia che potrebbero condizionare il regolare buon andamento della pubblica amministrazione.
In questi giorni, dopo la decapitazione dell’organo elettivo nei 5 comuni azzoppati dal Viminale, molti sindaci del reggino hanno scritto al ministro Marco Minniti, spiegandogli di sentirsi soli, minacciati non solo dalla mafia ma dalla stessa paura di non sentire alle loro spalle lo Stato.
Anche qui, occorrerebbe essere molto più chiari e accorti. Nel recente passato le amministrazioni detronizzate a causa di infiltrazioni mafiose sono state “riabilitate” dalle sentenze delle aule di giustizia ordinaria, quando si è trattato di operazioni a carico di amministratori, oppure di sentenze della giustizia amministrativa. Ma chiunque amministri la cosa pubblica è anche tenuto a sapere che non è solo la presenza di una indagine o, addirittura, di un processo, che innesca la procedura di scioglimento, ma quando «… a seguito di accertamenti effettuati a norma dell’articolo 59, comma 7, emergono elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o su forme di condizionamento degli amministratori stessi, che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi alle stesse affidati ovvero che risultano tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica».
La vera sfida dello Stato, in territori in cui la presenza mafiosa è palpabile, è riuscire a garantire contemporaneamente due diritti: quello alla legalità e quello alla rappresentanza dei cittadini scaturita dal voto. Spesso garantire la legalità significa estirpare organi elettivi che rappresentano i cittadini, sostituendoli con commissariamenti straordinari dalla durata di 18 o 24 mesi.
Due appaiono i punti debolissimi della normativa attuale: l’azione dei commissari e l’inamovibilità “de facto” dei dirigenti della pubblica amministrazione.
Sul primo aspetto si discute da tantissimo tempo. Molto spesso i cittadini hanno lamentato la scarsa conoscenza del territorio e l’evanescente azione amministrativa delle triadi commissariali che reggono i poteri di consiglio e giunta nel periodo in cui il comune è “sotto tutela” del Viminale. Ai commissari non solo si imputa di non aver sufficiente dialogo con la gente o capacità di mediazione, ma spesso si sottolinea la mancanza di afflato nella programmazione delle attività amministrative e nello sviluppo della cosa pubblica. Ma il dato più sconfortante, giacché oggettivo, è che molti comuni, dopo la fine del commissariamento, ricadono negli stessi vizi o addirittura in un nuovo provvedimento di scioglimento. Casi emblematici sono Taurianova e San Ferdinando, commissariati per mafia due volte nel giro di 4 anni. Questa evidenza porta dire che il lavoro di bonifica delle commissioni straordinarie o non è sufficiente o non riesce ad invertire la rotta culturale.
Sul nodo dei dirigenti, invece, un adeguamento legislativo c’è stato, con un comma che spiega che «anche nei casi in cui non sia disposto lo scioglimento», qualora la relazione prefettizia rilevi la sussistenza di elementi sospetti «con riferimento al segretario comunale o provinciale, al direttore generale, ai dirigenti o ai dipendenti a qualunque titolo dell’ente locale, con decreto del Ministro dell’interno, su proposta del prefetto, è adottato ogni provvedimento utile a far cessare immediatamente il pregiudizio in atto e ricondurre alla normalità la vita amministrativa dell’ente, ivi inclusa la sospensione dall’impiego del dipendente, ovvero la sua destinazione ad altro ufficio o altra mansione con obbligo di avvio del procedimento disciplinare da parte dell’autorità competente». È chiaro che non è facile rimuovere un dipendente pubblico a rischio, viste le ampie tutele sindacali di cui gode e del favore della giurisprudenza in materia che risulta assai garantista. In buona sostanza, un consigliere o un sindaco possono essere rimossi con facilità, un dipendente resta (quasi) sempre al suo posto.
A questo punto, risulta chiaro che più che misure deterrenti o terapie d’urto come gli scioglimenti degli organi elettivi, siano fondamentali azioni di prevenzione. Esse, però, spesso rimangono lettera morta per due motivi. Il primo è senza dubbio la scarsa consapevolezza del voto da parte dei cittadini, che sovente premiano qualità che non sono l’onestà e la buona condotta. Ma soprattutto la politica sta dimostrando di essere incapace di selezionare in maniera efficiente la propria classe dirigente, non riesce a dire “no” a pacchetti di voti facili e nei piccoli comuni, dove tutti conoscono tutti, preferisce un garantismo pilatesco piuttosto che un rigore che servirebbe ad evitare il baratro dello scioglimento e del commissariamento.
Domenico Mammola