È un falso mito quello veicolato da chi dice che “con la cultura non si mangia”, ma l’economia culturale – quella che dovrebbe produrre reddito e, dunque, pane – è imbrigliata in una vera e propria «gabbia protezionistica». Lo è perché i principali produttori di reddito, gli enti, passano un’idea «opuscolare» della cultura, nella quale le poche idee valide sono prontamente immagazzinate in guide, annuari e itinerari, la creatività semplicemente depositata in opuscoli e brochure patinate, prodotto e lavoro di reti di privilegiati al servizio della politica di professione. Nessun talento: commesse e, dunque privilegi, vengono acquisiti per via parentale o per mezzo di strane e opportunistiche strategie e “alleanze di cuore e portfolio”. Cosmi chiusi e autoreferenziali, invalicabili fortini di demerito.
Il tessuto culturale delle città potrebbe invece avvalersi di liberi pensatoi, loci privilegiati per la selezione e valorizzazione di talenti da destinare a un’economia culturale libera da legacci e diversamente concepita. Esperienze di aggregazione e cultura come quella di #OIL (Oltre il labirinto) potrebbero essere ancora maestre. Nemmeno un paio di anni fa a Cosenza, sull’onda emotiva generata dal suicidio della ventottenne Lucia, giovane madre precaria, e dalla toccante lettera della madre rimbalzata sui media, centinaia di più o meno giovani, attivi e pensanti, diedero vita a un partecipato flashmob ma, soprattutto, a periodici incontri nei teatri e all’aperto nei quali attraverso il “pensar creativo” si tracciavano vie di fuga dal malessere generalizzato e dall’avvilente labirinto della precarietà. Ma la Città, quella invisibile e verticistica, quella dei patti di “grembiule e manganello”, si chiuse a riccio come a inghiottire quel pericoloso esperimento orizzontale di democrazia culturale. Se «gli ultimi viandanti si ritirarono nelle catacombe ed accesero la televisione», altri provarono strade individuali tesaurizzando quell’immenso patrimonio immateriale: si parlava di vivificare i testi, liberare le parole, rioccupare e dunque popolare gli spazi.
E allora: tutta la pubblicistica regionale dovrebbe essere “vivificata”. Bisognerebbe incoraggiare la divulgazione e promozione di quelle opere di pregio e pubblica utilità, trasformando i caratteri i suoni e parole. A farsi carico di questa benefica mutazione dello stampato in modelli di vita quotidiana, tutto quel “sottobosco” di artisti, musici, poeti, cantastorie, laureati in discipline umanistiche, delle arti, della musica e dello spettacolo privi di reddito o con redditi indegni. Bisognerebbe disincagliare la parola stampata dalle secche di un ceto imprenditoriale e di una politica che la indirizza o, peggio ancora, soggioga, liberare lo stesso stampato da quella forma di controllo e ricatto chiamata pubblicità. In tal senso bisognerebbe sostenere le benefiche e nascenti libere cooperative di giornalisti e liberi veicolatori di cultura, per i quali battersi anche tramite l’intercettazione e la destinazione di fondi. In un contesto in cui la cultura dell’apparenza e dell’immediato domina su quella dell’essenza e del lungo periodo, bisognerebbe stimolare il cittadino a riappropriarsi di quei luoghi dove scorre cultura, nei quali si forma e fomenta un’opinione non asservita, dove si crea sfera pubblica: biblioteche, musei, pinacoteche, oggi semivuoti, dovrebbero essere posti al centro e non ai margini di contesti urbani e di interventi regionali volti a garantire un’esistenza dignitosa agli stessi e non gravante unicamente sulle deboli spalle di precari (Lsu-Lpu dislocati da altri settori) e cittadini volontari.
Matteo Dalena
Candidato al consiglio regionale
L’Altra Calabria