“80 metri quadri di silenzio”: una mostra, una tela, un’immagine conservata nel cuore per dieci lunghi anni. A Milano, alla manifestazione che si è tenuta lo scorso 18 ottobre per presentare l’opera di Domenico Fazzari (inaugurata il 6 luglio) sono accorsi visitatori provenienti da ogni parte d’Italia.
10 di altezza e 8 di lunghezza: tanti sono i metri della tela, oggi esposta al Museo “Francesco Messina” di San Sisto, e tanti sono quelli che misura l’abside della chiesa di San Nicola Pontefice, ad Africo, nel cuore dell’Aspromonte «Un dipinto a grandezza naturale – precisa l’artista – una scelta passionale, fatta con lo stomaco». Ma, per comprenderla fino in fondo, è necessario fare qualche passo indietro…
San Sisto è una chiesa sconsacrata, la cui abside è andata distrutta durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Oggi la struttura è stata restaurata e adibita a museo: uno spazio originale in cui sono conservate parte delle opere dello scultore Francesco Messina che, anticipando il destino di molti meridionali, fu “siciliano d’origine e milanese d’azione”.
San Nicola è una chiesa sperduta nel cuore dell’Aspromonte, affacciata sulla piazza di Africo antica. Sconsacrata e maledetta assieme alla sua gente e a quel paese montano, di cui l’alluvione del 1951 sancì la morte.
Due chiese, due abbandoni diversi e, attorno, il silenzio di cui parla Domenico Fazzari… «Quando scendevo in Calabria per le vacanze estive, non riuscivo a stare lontano dall’Aspromonte. Colpa di Vito Teti, Corrado Alvaro, Saverio Strati che con le loro opere mi avevano conquistato; colpa della sensibilità e della dedizione di Zanotti Bianco perduto tra la sua “perduta gente”.
Con la mia compagna partivamo a piedi alla ricerca dei posti descritti dai libri e pernottavamo in tenda, lasciandoci rapire dalla montagna. Giravamo molto, anche di notte, a studiare le forme e i giochi della natura: lucertole e vacche erano padrone dei sentieri, le parietarie erano l’unica protezione di mura cadenti, le rocce stavano irte come quelle di Stonehenge, gli alberi secolari vociavano col vento. E mai l’obiettivo delle nostre visite fu l’uomo o le sue opere, ma i giochi di luce, i colori, il modo in cui la natura iniettava vita nei luoghi abbandonati. Poi, ad Africo, accadde qualcosa…».
C’è una curva dopo Campusa che è capace di segnare per sempre un visitatore, un confine geografico che, al contempo, è un confine dell’anima. Africo sta tutta lì, nascosta dietro un puntone di roccia: dalle verdi querce – in fondo alla strada – viene fuori imponente la facciata di San Nicola, attorno, decine di case che sembrano aggrappate ad essa per non scivolare nell’Aposcipo, giù, a valle. E, pur senza vita, ella pare vivere. Fazzari ne resta folgorato «Dieci anni fa, in una di queste escursioni, ci trovammo difronte a tutte quelle rovine. Attraversammo gallerie di vegetazione, arrivammo alla piazzetta lastricata di mattoni, entrammo curiosi nella chiesa: ed eccola la luce del Mediterraneo! La luce del Mediterraneo che scendeva da lucernai naturali creati sul soffitto dal tempo e dall’incuria; e la vacca che ci guardava stupita mentre sostava bonaria dinnanzi all’altare; e la natura che entrava prepotente laddove l’uomo si rifiutava di tornare: un’immagine che conservai a lungo. Per anni. Fino ad oggi. Fino a quando il Museo mi ha dato l’occasione di realizzare la mia tela».
Ed eccoci a Milano, con Maria Fratelli, direttrice del Museo “Francesco Messina”; Alice Dal Borgo, moderatrice della serata; il professore Vito Teti, studioso di etnografia dell’abbandono; Patrizia Giancotti antropologa, giornalista e fotografa; e con i tanti ospiti chiamati ad onorare il tavolo dei lavori: l’Amministrazione di Africo, con il sindaco Francesco Bruzzaniti e i consiglieri Nunzio Zavettieri e Bartolo Morabito; il regista Alberto Gatto e il fotografo Frank Armocida.
«L’installazione site-specific realizzata per il Museo Messina, grazie al supporto dei Laboratori di Scenografia del Teatro della Scala – racconta Fazzari – ha permesso di far dialogare il Nord e il Sud. Ha suscitato un interesse che è andato ben al di là di ogni aspettativa, tanto che la mostra è stata prorogata in via eccezionale per un altro mese, permettendo così di strutturare una serie di eventi e di incontri. Dalle rappresentazioni teatrali dello Studio Novecento di Marco Pernich, che ha messo in scena, davanti alla tela, una parte del suo spettacolo “Genesi” (un’ermeneutica teatrale dei Capitoli 1,11 del Libro della Genesi), proponendo i brani l’Angelo del Racconto e La moglie di Noah – un racconto apocrifo, interpretati magistralmente da Stefania Lo Russo con l’accompagnamento al pianoforte di Diego Petrella. Sempre lo studio Novecento ha fatto dei workshop teatrali con i Tableaux Vivants, proponendo delle scene ispirate alle vicende di Africo. Interessante è stato l’intervento (dello scorso 26 settembre) del professore Geminello Preterossi, docente di Filosofia del Diritto presso l’Università di Salerno. Il tema del dibattito è stato “la forza dei luoghi come antidoto all’omologazione”, una riflessione su come oggi, nell’era della globalizzazione o del disordine delle società in cui siamo, sia necessario tutelare lo sgretolamento delle identità ed il rapporto con la “polis” diventa un momento di forte riconoscimento.
Sono sempre più convinto che l’arte abbia la magia e il potere evocativo di permettere il dialogo e la condivisione di pensieri, espressioni, esperienze ed emozioni.
Con il 18 ottobre si è concluso, per il momento, il ciclo di eventi in programma. Abbiamo voluto chiudere proponendo il video “Ordine di Natura” che segna però l’inizio di altre riflessioni.
Il video girato tra Africo nuovo e Africo antica cerca di ricucire il rapporto tra gli abitanti con il proprio luogo di origine, nelle scene si contrappone con forte contrasto l’ambiente anonimo dove gli anziani narrano i loro ricordi e lo spazio naturale di Africo, avvolto dalla calda luce del Mediterraneo, dell’Aspromonte».
È stato Vito Teti, da attento antropologo, a mettere l’accento sul senso dei luoghi segnati dall’abbandono, ben interpretando il sentimento africese ancora integro nella perpetuazione del culto a San Leo e nell’ostinato pellegrinaggio del 5 maggio al piccolo santuario aspromontano «Nonostante questo popolo sia stato costretto ad abbandonare il paese, è rimasto inesorabilmente legato alle sue origini». Conosce bene, il professore, il destino dei tanti pastori che, rifiutandosi di lasciare Africo, costruirono case più sicure a Carrà e scelsero di vivere una nuova forma solitudine. E di silenzio. E conosce gli sforzi, dettati dall’esigenza del ritorno, dei tanti africesi smembrati dopo l’alluvione tra Reggio, Bianco e Bova «La combinazione tra queste due chiese abbandonate di San Sisto e di San Nicola è stata emozionante, perché è la dimostrazione di come, pur partendo da una storia dolente, drammatica, si possano creare delle novità importanti per la comunità. Su quella tela c’era impresso un pezzo di Africo a cui sono molto legato. È stato un motivo di orgoglio e compiacimento partecipare alla manifestazione, oltre al piacere di rivedere i tanti e tanti amici che sono accorsi per non perderla. La partecipazione dei calabresi è stata significativa. L’evento sarà utile non solo ad Africo e a San Sisto, ma ai tanti paesi abbandonati esistenti in Italia, perché l’arte, la cultura, la letteratura possono favorire la rinascita delle aree più interne».
Un legame che, per fortuna, non lascia indifferenti neanche i più giovani: oggi l’amministrazione guidata dal sindaco Francesco Bruzzaniti ha investito sulla valorizzazione del borgo abbandonato, grazie al sostegno del Parco nazionale d’Aspromonte: «É stato emozionante sentire parlare di Africo in un contesto ampio come quello offerto da Milano, soprattutto è stato emozionante sentirne parlare in modo positivo. Africo ha un invidiabile patrimonio culturale e naturalistico che, come abbiamo appurato, è molto apprezzato anche fuori. Per questo ricostruiremo il borgo antico, senza per questo intaccare l’equilibrio che esso ha trovato con la natura circostanza: la nostra sarà una nuova dimensione di “ritorno”».
E la bellezza, che emerge prepotente nel saliscendi naturale di vallate e tornanti dell’Aspromonte, emerge dalle parole dei tanti intervenuti: tra questi il professore Teti e la direttrice Maria Fratelli.
Ed anche la giornalista Patrizia Giancotti, autrice di un libro “Filoxenia”, parlando dell’Area grecanica, delle tradizioni agro-pastorali, dei suoni dei dialetti, non ha potuto fare a meno di evidenziare una forma di bellezza tipica dei paesi dell’entroterra perché di radici antiche: l’accoglienza, l’amore per il forestiero, il valore sacro dell’ospitalità, principio etico fondamentale della cultura greca «Questo pezzo di terra ha un modo di accogliere unico al mondo» ha commentato.
Un confronto che ha lasciato il segno, dunque, e anche un desiderio comune: portare la tela ad Africo per un’esposizione, col suo carico di eventi, interventi, cultori; con le sue tracce di Milano e di San Sisto, e delle storie di abbandono e sentimento popolare che sono uguali da Nord a Sud «Il mio sogno sarebbe realizzare un museo all’aperto nel borgo aspromontano, con vacche e lucertole a fare da spettatori, e il silenzio ad avvolgere tutto. Così, come quell’immagine è stata impressa dentro di me per oltre dieci anni. San Sisto e San Nicola sono due chiese che hanno molto in comune, seppur vittime di violenze diverse» conclude l’autore.
a.i.