Sono passati ormai circa 117 anni da quando in quel di Gioia Tauro (nelle contrade di Monacelli e Santa Maria) durante l’esecuzione di lavori agricoli, vennero alla luce diversi resti di natura archeologica; a darne notizia fu Paolo Orsi (in N.S. 1902) su indicazione dell’ottimo osservatore e storico locale Vittorio Visalli.
Tali reperti rimasero per qualche anno nelle mani dei proprietari del suolo in cui vennero rinvenuti, per poi essere donati ad un illustrissimo dell’arte scultorea, nonché nostro conterraneo Francesco Jerace, il quale trattenne le opere nella propria collezione privata presso il suo studio nel parco Grifeo in Napoli. Negli anni ‘20 lo stesso Jerace vendette clandestinamente all’estero le terracottemetauresi, di cui tre pezzi, tra i più rilevanti della collezione, furono acquistati dal MetroplitanMuseum of Art.
Di tutti gli altri reperti gioiesi oggi non vi è la benché minima traccia.
Questa è la storia che un po’ tutti noi conosciamo.
Non pago di queste informazioni, mi trovai tempo fa alle prese con la traduzione di un estratto di testo dal “The Metropolitan Museum of Art Bullettin, Vol.20, No.1 (Jan. 1925), pp. 14-16”
Da cui oltre ad aver avuto informazioni più specifiche dal punto di vista tecnico in merito alle tre terracotte metauresi acquisite dal museo in quegli anni, mi sono imbattuto in un quarto pezzo proveniente dalla stessa località delle precedenti, e descritto dall’allora curatrice del Dipartimento di Arte Greca e Romana “Gisela M. A. Richter”, come la parte frontale della testa di un leone in creta giallo/marrone, classificato presumibilmente quale pezzo architettonico decorativo facente parte di un cornicione (secondo il De Franciscis invece, il pezzo potrebbe essere stato parte di una piccola statua). Tuttavia, è possibile affermare con certezza che non sia stato un semplice pluviale, in quanto non presenta alcun foro per lo smaltimento delle acque piovane poiché la bocca aperta non è difatti collegata con la parte retrostante e la forma della dentatura e della lingua sporgente è molto realistica ed accurata, nel pieno stile del V secolo.
Tornando immediatamente allo schizzo dell’insieme dei reperti metauresi, fornito dallo stesso Orsi nel periodico “Notizie degli Scavi di Antichità, Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei”, notai che alla pagina 129, figura 3, al pezzo classificato con il numero 2, corrispondeva un’immagine dal profilo felino ed appunto classificato dall’archeologo come “maschera animale per bocca di gronda (?)”.
Purtroppo non vi erano riferimenti fotografici di confronto per poter sciogliere il dubbio.
Casualmente, tra il 2014 ed il 2017, gli alti dirigenti del Metropolitan Museum hanno dato vita ad una innovativa politica museale definita”OASC” cioè Open Access Scholarly Content, mediante la quale è possibile accedere ed utilizzare gratuitamente una piattaforma costituita da oltre 400.000 immagini digitali derivanti dalla catalogazione di tutti i pezzi dell’enorme collezione del MET.
Continuando la ricerca e sfruttando a pieno il database del sito ufficiale del museo, mi imbattei in una poco chiara scheda tecnica del pezzo che assiduamente cercavo, nessuna foto, nessun luogo di provenienza (solo uno spento “Southern Italy), nessuna data di acquisto, nulla!
Per saperne di più è stato necessario intraprendere una piacevole collaborazione durata parecchi mesi con altrettanti organi connessi al Metropolitan: l’Archivio Storico Museale, l’Onassis Library, il Ratti Center e l’immancabile Dipartimento di Arte Greca e Romana, coinvolgendo in prima persona l’attuale curatore dello stesso, la dott.ssa Joan Mertens.
Insieme alla stessa, mediante un accurato lavoro d’archivio, è stato possibile risalire ai primi scatti del reperto, insieme alle poche ma basilari informazioni che adesso ci permettono di avere un quadro più dettagliato della provenienza e dell’esatta data di acquisizione dei reperti gioiesi (1922), oggi è possibile “VEDERE” in tutta la sua bellezza una cosa in più della nostra cara vecchia Métauros.
Saverio Antonio Modaffari