La vicenda giudiziaria del cittanovese Vincenzo De Moro ha avuto inizio nel novembre del 1998 quando lo stesso, insieme ad altri nove coimputati, è stato arrestato con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso quale presunto affiliato alla “cosca Albanese”, clan operante tra i territori di Cittanova e Molochio ed in faida per molti anni con la cosca rivale dei Facchineri, e volto ad ottenere, avvalendosi della forza intimidatrice promanante dal vincolo associativo e dalla condizione di assoggettamento ed omertà, la gestione ed il controllo delle attività economiche private esistenti in quel territorio ed ottenendo, attraverso l’attività estorsiva, ingiusti profitti a favore dei propri associati.
Per tale contestazione ha subito una custodia cautelare in carcere dal 4 novembre 1998 al 25 ottobre del 2000 ed un processo che è durato ben 16 anni.
Al De Moro, in particolare, era stato contestato il rapporto di contiguità con uno degli esponenti del della “ndrina”, Mario Vernì, dal quale, a giudizio della Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, sarebbe derivata la prova della sua appartenenza all’associazione.
Lo stesso era considerato il custode delle armi del clan poiché, precedentemente, i Carabinieri del Nucleo Operativo di Taurianova avevano rinvenuto, in un immobile di sua pertinenza, numerose armi, munizioni e polvere da sparo ritenute nella disponibilità della cosca Raso-Albanese.
Al termine del giudizio di primo grado il De Moro, difeso dall’avvocato Antonino Napoli del foro di Palmi, era stato assolto dall’accusa di associazione mafiosa nonostante la richiesta di condanna del Pubblico Ministero della Distrettuale Antimafia.
Successivamente, però, la Corte d’Appello di Reggio Calabria, accogliendo l’appello del Pubblico Ministero aveva riformato la sentenza di primo grado e lo aveva condannato quale partecipe dell’associazione mafiosa denominata ‘ndrangheta.
Avverso la sentenza di condanna l’avvocato Antonino Napoli aveva proposto ricorso in Cassazione evidenziando che la motivazione della sentenza di condanna difettava in ordine agli elementi idonei a far ritenere che il De Moro fosse affiliato, e pertanto partecipe, della “cosca Albanese”.
La Cassazione ritenendo fondato il ricorso del difensore aveva annullato la sentenza della Corte di Appello, disponendo un nuovo giudizio davanti un’altra sezione della Corte di Appello di Reggio Calabria.
Nel giudizio di rinvio la Corte ha ritenuto di derubricare il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso in quello di favoreggiamento, dichiarato prescritto.
Non condividendo neppure quest’ultima sentenza l’avvocato Antonino Napoli ha proposto ricorso in Cassazione e la sesta sezione penale della Suprema Corte, ritenendo fondate le doglianze difensive, ha annullato ancora una volta la sentenza della Corte di Appello assolvendo definitivamente Vincenzo De Moro con la formula “perché il fatto non sussiste”.