Una normale giornata al pronto soccorso può diventare un’odissea tra lunghe attese, spostamenti non desiderati, diagnosi imprecise o apparentemente superficiali, ma anche onerosi conti da pagare, senza ottenere in cambio referti, prestazioni mediche soddisfacenti. Questa è l’impressione comune dopo avere avuto un piccolo incidente domestico ed essersi rivolti al servizio sanitario pubblico, lontani dall’idea che percepiamo dai telefilm americani, drasticamente la realtà ci fa scoprire medici stanchi, infermieri scocciati dalle domande dei pazienti.
La mia esperienza al pronto soccorso non mi ha scioccato per la fila, la mancanza di un vero triage, per esperienza personale posso dire che non è facile esercitare una professione così delicata come quella di un medico, il quale si ritrova a disquisire sulle più improbabili vicende sanitarie, che ha come supporto dei reparti fantasmi, personale ridotto. Il fatto di dover sopperire per gli spostamenti con un mezzo privato, perché stranamente gli strumenti base di un nosocomio di primo soccorso non funzionano mai, specialmente ad agosto, in modo particolare se sei poi un paziente indigente, che deve sperare d’incontrare chi è disponibile di un gesto di pura carità, per ottenere qualcosa che è implicito alla richiesta, neanche questo mi è apparso anormale. Il silenzio del medico davanti alle radiografie del mio piede dolorante, il suo sguardo vuoto ed indifferente, quando ho cercato di rubargli un minimo commento, il rientro al pronto soccorso di riferimento, la domanda del medico se volessi un antidolorifico, come se la scelta di prendere una medicina spettasse solo a me o come se fossi lì per divertimento o perché ad agosto non vi sono altre alternative per trascorrere il tempo (forse esistono persone che periodicamente amano trascorrere il loro tempo immaginandosi malattie o traumi?!), anche tutto questo rientra nella normalità, la solita prassi niente di diverso.
Giunti al momento di concludere l’iter burocratico, mi è stato consegnato un foglio con su scritta la cifra da pagare, mi sono state prese di mano le radiografie, precisandomi che sono di loro proprietà, quando allora ho chiesto cosa giustificasse l’onerosa cifra da versare (il referto non era mio, lo spostamento tra un ospedale e l’altro tra paesi differenti è stato mio carico) l’infermiera che sino a quel momento non aveva risposto neanche al mio saluto, con aria arrogante mi risponde “per la visita professionale”. Allora ho pensato che il dolore avesse proprio distorto la mia realtà, non ricordo di aver visto un ortopedico o altro specialista, il radiologo o presunto tale ha solo inserito una sigla indecifrabile su un foglio. Come me altri pazienti pagheranno quanto chiesto e potrebbero capire le difficoltà di chi deve lavorare tra disagi e mancanze, solo se fossero trattati come persone che dai motivi più futili a quelli più gravi sono lì per motivi di salute e non hanno bisogno di essere presi in giro di fronte l’evidenza.
Lidia Coppola