La fine della legislatura porta con sé la relazione finale della Commissione Parlamentare Antimafia. Nell’ampio documento, oltre 600 pagine, la Calabria figura come territorio chiave per la ‘ndrangheta. L’economia ne è condizionata, così come la vita civile, politica e persino culturale. Il lavoro quinquennale degli esponenti di Camera e Senato, coordinati dalla presidente Rosi Bindi – eletta a Reggio Calabria nel 2013 – si è concentrato sulle audizioni in giro per l’Italia: ha ascoltato magistrati, politici, amministratori, imprenditori e pezzi della società. In moltissimi passi del dossier si fa riferimento a Reggio Calabria come una provincia in cui il giogo mafioso è stringente, vivo e si amplifica in ogni settore. Vi sono preoccupazioni, sia dei commissari che dei loro interlocutori, su come la battaglia contro le ‘ndrine sia in bilico, tutt’altro che vinta in zone periferiche, spesso in cui la presenza dello Stato non è così massiccia come dovrebbe. Si fa riferimento anche all’esiguità di contingenti di forze dell’ordine sul territorio, «comandi locali troppo esigui per intervenire, perché la geografia del potere mafioso non coincide con quella del potere ufficiale, che per decenni ha lasciato così sguarnite le capitali dei clan mafiosi, spesso piccoli paesi: Platì e San Luca, Rosarno (la massima densità di affiliati rispetto alla popolazione) e Limbadi, Volpiano e Buccinasco, San Giuseppe Jato e Casal di Principe, Fino Mornasco e Brescello, solo per fare alcuni nomi». E proprio Rosarno, Palmi, Gioia Tauro, riecheggiano nella relazione, come luoghi in cui la mafia stringe il cappio. Ma vi sono, legati al territorio, anche racconti di imprenditori, sacerdoti, uomini liberi che si oppongono alle pretese dei clan, come Antonino De Masi, Antonio Bartuccio, don Pino De Masi, solo per citarne qualcuno. Una sorta di amaro pessimismo si avverte nell’intervento del Presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto di Bella, quando afferma che «l’obiettivo (dell’azione dei giudici, ndr) non è la punizione delle famiglie, ma di aiutare questi ragazzi, di allontanarli per fornire delle alternative culturali, dei parametri valoriali educativi diversi da quelli deteriori del contesto di provenienza nella speranza di sottrarli alla strutturazione criminale o alla definitiva strutturazione criminale. Se si nasce a San Luca, a Bovalino, a Rosarno, a Locri, si ha un nonno ‘ndranghetista, un padre ‘ndranghetista, fratelli ‘ndranghetisti in carcere, una madre intrisa di cultura mafiosa, le possibilità di uscire, di affrancarsi dalle norme parentali sono quasi nulle». Molto ampio, poi, è il capitolo che riguarda il porto di Gioia Tauro, che «è uno dei crocevia del traffico di droga lungo le rotte che dal Sud America si proiettano in Europa. Le cosche egemoni nella Piana controllano le attività di gestione dei servizi interni del porto, dove le cosche possono contare sulle complicità e il supporto di tecnici e i lavoratori per le operazioni di transhipment della droga dai container a terra». Una infrastruttura cruciale per il territorio che, però, vive un momento di crisi terribile, con la prospettiva di lasciare senza reddito centinaia di famiglie. E rimanere disoccupati, in Calabria, significa divenire bersaglio delle lusinghe dei clan, che recitano spesso il ruolo di agenzia di collocamento. Sotto la lente d’ingrandimento della Commissione anche l’ospedale di Gioia, troppo vicino alle mire dei clan. La sanità, si sa, al sud è come la FIAT, la prima azienda, quindi dove ci sono appalti, denaro e consulenze, si presenta, puntuale, la ‘ndrangheta.
La provincia reggina, inoltre, ha il poco invidiabile primato degli scioglimenti dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose. Sono ben 59 da quando è in vigore la legge, 1991, e tantissimi civici consessi sono stati azzerati nella Piana. I pluri-scioglimenti dei Consigli di Gioia, Taurianova, Seminara, Rizziconi, San Ferdinando, campeggiano nel dossier dell’Antimafia, come monito e memorandum per le classi politiche locali.
Un quadro a tinte fosche sì, ma in fondo all’ampia relazione c’è una speranza, quasi come nel vaso di Pandora. I mali sono usciti, sono inquadrabili e sono stati scandagliati, ma le soluzioni tardano a produrre effetti benefici. C’è, tuttavia, un punto importante: la cultura antimafia, quella della legalità, è in crescita, sebbene alcune associazioni si servissero dell’antimafia di facciata per coltivare il proprio orticello criminale o illegale. I segnali, deboli, di ripresa ci sono, ma devono essere incoraggiati, da istituzioni senza macchia, associazioni pronte a dare battaglia alle ‘ndrine, scuole che la legalità la insegnano e la praticano, e una chiesa, come Papa Francesco ha dimostrato, mai indulgente con i mafiosi.
Domenico Mammola